EARTHSET, ovvero Stati alterati di incoscienza …. ma non c’entrano i Rolling

1414141414Il gruppo bolognese all’esordio con un lavoro che produce sensazioni discordanti …. un po’ come gli stati di incoscienza ai quali fanno riferimento. Un bel lavoro d’esordio che promette future sorprese

“In a state of altered unconsciosness”! Stati alterati di incoscienza, da lontano, almeno come titolo, mi ricorda un pezzo rollingstoniano, vale a dire quel Sister Morphine canto di una generazione dis-fatta ma anche certe note floydiane che di acido avevano molto. Mentre scrivo il pezzo, la musica di questo gruppo indipendente di Bologna, gli Earthset, mi riporta indietro nel tempo quando qui, nella nostra soleggiata terra, insieme ad alcuni amici organizzammo una serata in ricordo dei dieci anni di “Grace” di Jeff Buckley. Eh si, perché anche il grande Jeff sembra abbia molto influenzato gli Earthset dei quali scriviamo.

Il disco, autoprodotto come quelli di tanti altri gruppi che seguiamo, composto da dieci tracce, diventa una sorta di riflessione sensoriale dove c’è posto anche per la paura. A questa band piace molto giocare con i suoni e le armonie che variano tra il classicismo ed il noise, tra l’indie rock ed il grunge senza però essere mai banali, anzi, sono così ben amalgamate da riportarti a riascoltare il lavoro più di una volta, non solo per assaporarlo meglio ma per gustare a fondo l’intera produzione.

A noi è sembrato che “In a state of altered unconsciousness” prodotto dagli Earthset è proprio grande perché complesso (quanto ci piacciono queste cose), fuori dalle normali consuetudini come quei diamonds cui alcuni passaggi fanno riferimento.

Uscito il 26 ottobre del 2015 per la Searorse Recodings e presentato all’Arteria di Bologna il 5 novembre, ottiene da subito i favori della critica grazie alla maturità che la band fa trapelare dai solchi perché quelle dieci tracce sono, difatti, il risultato sonoro di una ricerca che partendo dalla sperimentazione strizza l’occhio anche all’orecchiabilità.

Ma la loro è anche una storia fatta di live perché, come tutte le band che si rispettino, le ossa si fanno e si forgiano sulla strada; già, la strada cui spesso nei grandi classici rock si fa riferimento (leggi Burroughs, Patti Smith, Kerouac).

Ma di certo la loro forza sta nella musica, tenace, carica di energia, underground di modo e di fatto. Nella loro musica c’è veramente di tutto.

Già dall’introduzione degli Stati, che apre con Ouverture le situazioni sono da subito intimiste e le ritroveremo in tutta la produzione in esame. L’introduzione al piano a tratti ricorda le note di Einaudi ma il tutto dura poco; infatti con “Drop” ci si proietta subito in una serie di ballate di stampo progressive. Forse in questo brano quello che meno convince è la voce a supporto di fraseggi e ritmiche ben concepite che fanno da eco ad alcuni movimenti tipicamente “Nirvana”….. e Foo…., ma anche qui forse ci sarebbe voluto un po’ più di studio sulle vocalità. Di breve durata ma efficace comunque il brano in questione.  The Absence Theory ha ancora tanto Foo Fighters ma anche Audioslave all’interno dei suoni … e lontanamente ci ricordano anche ritmiche da film dove le immagini sono quelle delle lunghe, estenuanti ed interminabili serpentine asfaltate che attraversano i desertici paesaggi americani, da sempre presenti nelle opere hollywoodiane come quella propostaci dal grande Oliver Stone all’inizio del grande autobiografico film  su Jim Morrison. rEvolution of the Species ci avvicina a schitarrate non rudi ma di sicuro effetto che scivolano su una ritmica azzeccata ma che, come brano, pecca un po’ nelle impronte vocali. La parte finale del pezzo poi lascia semplicemente di stucco per la tecnica e lo stop improvviso del brano che ci ricorda il miglior Dave Grohl. Capita così di ripiombare in una introduzione semplice alla Alta Loma, brano della prog band P.F.M. con un percorso armonico successivo che ricorda a tratti i Genesis degli esordi con il miglior Steve Hackett per quell’Ephipany che a noi è piaciuta molto. So what è tipicamente clashiana, segno che questi ragazzi hanno dalla loro una predilezione “maledetta” per certo rock di sicuro lontano da loro anagraficamente ma ben assorbito. Qui un elogio è da sprecarsi perché l’assorbimento oltre che quantitativo è anche qualitativo e per i gruppi cosiddetti indipendenti non capita spesso così. Skizofonia si presenta invece con un’apertura carismatica ed una chitarra che ricorda Robby Krieger e certi viaggi della percezione ai quali, forse anche per il tiolo, l’intero disco “In a state of altered unconsciosness” fa riferimento. Qui poi il perfetto intreccio con atmosfere floydiane da Ummagumma fanno di questo brano (per noi) forse il più accattivante dell’intero album. Gone di cui accennavamo prima ci riporta a quella sera che ci vide presenti ad uno dei concerti più entusiasmanti degli ultimi tempi, quello con i Warlocks che tanto gradiamo spesso sul nostro giradischi. Non vogliano assolutamente qui sminuire questo interessante lavoro con questa serie di “paragoni”, ma il richiamo a certe sonorità, pur nella loro diversificazione e personalità ci inducono, comunque ad affermare che lo stato di incoscienza ed i viaggi sonori (e forse non solo quelli) proposti dagli EARTHSET, stanno fin qui lasciando il loro segno. Non poco per un gruppo che di sicuro in futuro farà ancora parlare di se.

A.S.T.R.A.Y. si presenta con arpeggi classici di sicuro impatto quasi a voler cambiare percorso al discorso fin qui intrapreso. Il lamento del cantato è azzeccato come melodia, così come l’utilizzo della lingua inglese ci riporta ai Foo ma anche a certi Soundgarden che ben apprezziamo nei nostri ascolti. E’ probabile che stanotte siamo di parte, ma la mancanza di sonno e l’ascolto di questo nuova produzione ci portano ad assaporare le nostre notti estive fatte anche di ricerca musicale ad orecchio. Ma state certi che non è il vivere a orecchio del nostro Liga nazionale … anzi è un vivere a orecchio ma in rock. Apprezzabilissimo in questo brano poi il pezzo solistico alla chitarra elettrica di Luigi Varanese.

Lovecraft ci riconduce all’introduzione di questo lavoro con un pianoforte che sembra suonato in una camera oscura dove all’improvviso appare una chitarra elettrica che fa da sfondo ad una poesia introdotta da una ritmica sorniona ed efficace al tempo stesso. Certe cose le fanno spesso i Pearl Jam dei quali, io in particolare, sono un amante ed un estimatore profondo. Già, questi ragazzi di Bologna sanno come andare a colpire i nostri ricordi …. con semplicità disarmante …. E caspita se ci riescono. Basta sentire qui il riff di chitarra come ti penetra senza dolore nella pelle.

Circle Sea chiude il lavoro che hanno posto alla nostra attenzione in modo inaspettato, ma non troppo; l’impasto tra cantato in inglese, come tutti gli altri brani d’altronde, è una nenia che ci riporta a certe atmosfere di un Jeff Buckley mai dimenticato, quel Buckley che con Grace ha stravolto il mondo musicale. Un solo disco che dice e racconta tutto del rock d’autore. Di sicuro questo è il brano che ci è piaciuto di più … forse per le nostalgie che ha saputo riproporci, ma si sa … l’amore per certa musica e la traccia lasciata da questa nella nostra quotidianità non la si può dimenticare.

Ah quanti viaggi ci siam permessi … e qui l’incoscienza diventa pura poesia sonora.

Questi ragazzi, gli Earthset, indipendenti di Bologna, sanno il fatto loro … ne sentiremo ancora parlare se mantengono la loro semplicità.

Ti potrebbe anche interessare