Lou Reed – Coney Island Baby

Siamo a metà anni settanta, da una parte gli Eagles, dall’altra il Neil Young di Tonight’s the Night e Zuma; ma qualcosa sta per arrivare in un marasma di note sdolcinate e campagnole se si escludono alcune lontane e soffici elettricità presenti qua e là nella musica d’oltre oceano. Prima di ciò un precedente che aveva sconquassato il quieto vivere, la Metal Machine Music del dissacratorio Lou Reed, l’uomo e l’artista nati per andare sempre controcorrente ed oltre. Da quel cantore del male giunge invece ora un’idea ancora “oltre”, un disco leggero e piacevole, un lavoro che se voleva sembrare il passaggio ad una nuova fase in realtà tale non si dimostra. La carriera del Lou Reed after Velvet Underground è costellata di alti e bassi, ma è cosparsa anche di sorprese, le irruzioni di un grande rocker o poeta che dir si voglia. Già dalla copertina che riporta un Reed pierrot si capisce l’abbandono della via animale fin lì percorsa, e Coney Island Baby probabilmente è il risultato dell’amore nei confronti di Rachel, la drag queen alla quale Reed sarà legato per diversi anni. Lo stile musicale qui è mantenuto tra l’acustico e l’elettrico, ma i temi che Reed tratta sono quelli che lo hanno contraddistinto sempre, il cantare dei fiori del male che cospargono le strade di New York così come Coney Island, quel quartiere di Manhattan tanto caro a Reed. E c’è anche la droga di mezzo, infatti i testi oltre che parlare dell’amore per Rachel, portano ad una sorta di cerimonia per la liberazione gay o all’invasione cerebrale della metedrina usata in grande quantità sia da Reed che da Rachel. La realizzazione di Coney Island Baby avviene verso la metà degli anni ’70, Reed ha abbandonato i suoni di Metal Machine Music realizzando un album che a dispetto del distorto suono di MMM è melodico e meno ingombrante musicalmente parlando anzi, sembra avvicinarsi a certe atmosfere bowiane dove l’estetismo louridiano si esprime al massimo. Coney Island Baby è in grado di essere contemporaneamente scuro e leggero, così come in questa impalpabile oscurità è facile incontrare leggerezza e bel rock. Se prendiamo ad esempio l’ultima traccia, Coney Island Baby, subito ci si accorge di quanto le emozioni non siano mai fuori posto in questo lavoro e di quanto le atmosfere ruotino sempre intorno al cambiamento costante. Ma la forza dell’intero disco sta nella sua irregolarità che non è mai fuori posto, anzi è una diversità regolarizzata dalla sapienza del grande artista che Reed è, una atipicità compositiva sostenuta dall’ultima strofa che Reed propone in Coney Island Baby: “La gloria dell’amore, la gloria dell’amore, la gloria dell’amore potrebbe capirti. Ora io sono un bambino di Coney Island, Voglio dedicarla a Lou e Rachel, e a tutti i ragazzi della scuola statale 192. Amico, giuro che mollerei tutto per te.” Crazy Feeling, pezzo di apertura, è davvero una bella canzone al pari di Charley’s Girl e Nobody Business, pezzi dedicati alle donne delle quali poi, Reed, diventa un regalo con A Gift. Atmosfere distaccate e di molto rispetto al Reed che abbiamo conosciuto fino a questo punto della carriera, anche se poi con She’s My Best Friend, Kicks, sembra ritorni indietro ai tempi in cui la macchina velvettiana affrontava i temi più disparati come l’amicizia, la fedeltà, la fiducia. E quando poi Reed canta della voglia di giocare al calcio per l’allenatore, ciò che intende trasmettere è il profondo sogno dei dannati della strada ai quali viene restituito quel male che provvederà, poi, a fare tutto il resto. Coney Island Baby è nella più cupa realtà louridiana una sorta di sondaggio sui vizi che anticipano quell’ultimo atto rappresentato dall’omicidio, una situazione in cui, passano, almeno analiticamente nelle intenzioni dell’autore,  sia i bambini – Kicks – che le donne – A Gift -. Coney Island Baby giunge in un periodo compositivo quasi indifferente per Lou Reed, un lavoro sensibile sì ma fatto in un’oscuro momento della sua vita, e quell’idolatrarsi al gioco del calcio per il suo allenatore, di cui parla nell’omonimo pezzo dal quale prende il titolo l’album, ci fa capire che quello è in realtà per l’artista un mezzo per riappropriarsi dei tanti fan persi con Metal Machine Music ed andare avanti. Di certo Coney Island Baby ha un sound basilare e fondamentalmente essenziale, non ha nessuna ambizione, si getta in passaggi di folk rock sicuramente estranei alla carriera di Lou Reed. Coney Island Baby non ha confronti con altri lavori solistici precedenti se si esclude Metal Machine Music, ma è anche un bel disco, non di impatto certo, piacevole semmai.

 

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