Patti Smith – Trampin

Patti Smith è una di quelle rockstar che non molla mai anzi, lo ha dimostrato sempre ed in particolare nei momenti di maggiore difficoltà quando, comunque, è sempre riuscita a dire qualcosa, magari non eccellendo in alcune produzioni, ma è in ogni modo sempre stata una donna caparbia che ha saputo tenere alta la bandiera del rock. La sua è una vera e propria vocazione, prima come poetessa poi come autrice di lavori musicali che nulla hanno da invidiare a rock star di ben più elevata statura. E non sorprende neanche il fatto che quando diede alle stampe Trampin, quel suo modo di essere artista dalle molteplici sfaccettature, molti di coloro che l’avevano già data per spacciata si sono dovuti ricredere ampiamente. Trampin, come tante altre cose che ha realizzato, è un album sfacciatamente politico ma anche immediato, organico ed omogeneo. Qui la Smith celebra l’America che ama castigando tutti coloro che vorrebbero favorire una politica di sottomissione al governante di turno; il suo è un messaggio chiaro, è stare sempre su quella ipotetica linea di confine senza mai separarsi dalle contraddizioni americane che la portano a riflettere ma anche a proporre soluzioni alternative. Che lo si faccia poi con pezzi come Mother Rose o Trespasses o ancora con Ghandi poco importa, quello che per la Smith è importante che anche qui, in questo disco, ci sia poesia, quella poesia che solo il rock sa produrre. La poesia coinvolge tra vortici di parole ed apocalittiche visioni del potere, così come coinvolgono anche il bel gospel che Patti è capace di realizzare, o come il duetto che la stessa autrice realizza accompagnata al pianoforte dalla figlia.

Musica e rock senza tempo insomma, per un disco che è una vera e propria lezione su come possa essere vissuta la vita, senza farsela scorrere addosso ma succhiandone il nettare dal midollo, come accade nella delicataCartwheels, un motivo soffice dove percussioni e chitarre sono così leggere quasi da nascondersi. My Blakean Year, anche questo, è un inno acustico così come in Peaceable Kingdom è possibile gustare la “presenza quasi palpabile” di Woody Guthrie, musica senza tempo che non richiama fantasmi ma la presenza di grandi nomi che hanno dato tanto a quella America che la Smith ha sempre cantato e poetizzato. Non è possibile dare una classificazione a questo lavoro, no, non lo è perché qui siamo di fronte ad un disco senza tempo, tutt’oggi unico e bello allo stesso modo. Certo, Trampin esplode spesso in frasi recitate che rimandano alla poetessa che tutti conosciamo, ma quel fraseggio è il risultato della sua conoscenza profonda delle parole, sempre soppesate, mai sprecate, ma che arrivano dritte al cuore così come la musica arriva alle nostre orecchie.

E poi lasciatecelo dire, Trampin ha quel qualcosa che richiama precedenti produzioni della Smith quali Horsesche nel lontano 1975 la rilevò al pubblico internazionale, ma è anche una produzione che sembra avere certi richiami a capolavori assoluti del rock quali Are You Experienced? di Jimi Hendrix, o Exile On Main Street o ancora London Calling. Peccato però che Trampin non ha abbia avuto la stessa fortuna, ma si sa la poetessa del rock non si è mai posta certi problemi, non sarebbe arrivata lì dove ora è il suo posto, vale a dire nell’olimpo del rock!

 

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