Traffic – John Barleycorn Must Die

Responsibility sits so ah, hard on my shoulder” (Sulle mie spalle pesa una grande responsabilità)! Così cantava in A Gift il grande Lou Reed e molti, leggendo questa recensione, si domanderanno cosa ha a che fare un riferimento di questo genere con uno degli album più belli dei Traffic. Ebbene, se la responsabilità delle donne e di tante altre cose Lou Reed le sentiva sulle proprie spalle, qui l’onere di quanto John Barleycorn Must Die esprime è tutta di quella grande band che sono stati i Traffic. Pubblicato subito dopo Last Exit dell’anno precedente ma con una formazione a tre della quale facevano parte tre grandi, John Barleycorn Must Die è completamente diverso come approccio rispetto agli tre album pubblicati alla fine degli anni sessanta probabilmente anche per il fatto che era stato progettato come lavoro solista di Steve Winwood che, infatti, arruola proprio Capaldi e Wood per dare corpo e struttura al disco. L’album si presenta come una composizione dove gli approcci musicali sono i più disparati passando da riff jazzistici a delle vere e proprie jam. L’apertura, affidata a Glad, ci porta all’ascolto di un bel riff jazzistico al piano da parte di Winwood che ha un approccio molto free arricchito da bei passaggi flautistici e da un testo poetico scritto da Capaldi. E se si presta attenzione sembra proprio che Glad sfoci direttamente nella bella Freedom Rider quasi a suggellare la confluenza di questi due intro di apertura. Ma è in Empty Page che la batteria di Capaldi diventa davvero eccellente anche se il piano elettrico di Winwood non è da meno in fatto di armonicizzazione ritmica. E la cosa che più colpisce di questa prima parte del disco è l’assoluta mancanza di chitarre nelle composizioni fin qui ascoltate mentre nelle successive sia le acustiche che le chitarre elettriche sono ben presenti, eccome! John Barleycorn Must Die è l’album dei Traffic che raggiunge la posizione più alta in classifica negli States anche se in patria il successo che gli viene tributato è leggermente minore; probabilmente ciò è dovuto alla formazione che, proprio come il traffico in città, si contrae e si allarga a seconda dei momenti (sarà il caso che questa band si chiami proprio Traffic?). Sicuramente John Barleycorn Must Die è un disco che si suggerisce di avere nelle proprie collezioni perché rappresenta di fatto il momento più alto della creatività Traffic perché è intriso di folk, progressive, soul, jazz, blues, insomma una vera perla che in soli sei pezzi dimostra quanto questa band sia stata, oltre che grande, importantissima per il progressive folk che, attenzione, non è quello dei Jethro Tull. Il disco, che dura in tutto trentacinque minuti, secondo gli standard della vecchia scuola, riesce però a trasmettere tanta di quella musica con la “m” maiuscola che ha dato lustro a tutto il rock. Eh sì, perché le canzoni sono davvero eccellenti mentre le sequenze e le musiche sono davvero impeccabili come solo i grandi maestri sono in grado di comporre. John Barleycorn Must Die è la quintessenza dei Traffic perché tra composizioni, riff e virtuosità musicale tutto questo non lo si troverà nel rock che verrà dopo di loro, un album così sarà difficile trovarlo perché Steve Winwood, Jim Capaldi e Chris Wood sono sempre stati unici e lo hanno dimostrato anche nelle loro carriere del dopo Traffic. Artisti di tale calibro non ce ne sono tanti in giro, ma comunque sia i Traffic, al di là di questi nomi giganteschi, nel loro insieme hanno dato una considerevole svolta alla musica progressive inglese…e non solo quella. Ancora oggi i Traffic sono una delle band più ascoltate come tanto ascoltato è anche John Barleycorn Must Die. Sarà la magia degli anni ’70?

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