Elisa Montaldo ed il suo Fistful of planets part II per un viaggio multisensoriale

Il percorso artistico di un musicista è da sempre un continuo confronto con le proprie sensazioni, con le proprie convinzioni ma anche con quanto ci circonda. Non è fuori da questa mia convinzione neanche Elisa Montaldo che con il nuovo Fistful of planets part II, conferma la sua propensione ad essere artista completa e capace di cimentarsi con diversi generi. Lo dimostrano le sue produzioni finora realizzate partendo da Fistful of planets part I, che l’ha vista esordire da solista, poi Devoiler che nasce invece dall’ambiente di lavoro da piano bar che pur vedendola in una veste meno rock, merita un attento ascolto. Ci siamo sentiti per telefono tempo fa e sempre per questioni legate alle nostre passioni, ed in tutta sincerità Elisa mi è sembrata di una semplicità straripante, una genuinità che colpisce nonostante la sua stazza da rocker tutta al femminile. Ma veniamo a Fistful of planets part II che abbiamo avuto il piacere di ascoltare in anteprima assoluta: si parte con Valse de Sirènes (chanson), con musica e parole di Attala Alexandre, che vede Elisa impegnata sia alla voce che al piano, e con l’intervento di Matteo Nahum agli arrangiamenti; una bella “botta” musicale che oltre a sorprenderci ci riporta un po’ a quel viaggio visionario iniziato con la prima parte di questo stesso lavoro che qui, con questo disco, vede il suo compimento. E così mentre ci chiediamo se ci sarà una terza parte, anche in questo Fistful of planets part II così come nel precedente, tutto va scoperto pian piano, la musica non è mai la stessa, ma tutto si intreccia alla perfezione nonostante una trama musicale cangiante quasi fosse lo specchio di questa artista che ha fatto dei tasti un prolungamento delle sue emozioni. Fatto è comunque che la Montaldo ha saputo ben muoversi in quel panorama che spesso la circonda coinvolgendo, in questa produzione, collaborazioni di calibro che hanno dato il giusto apporto alle idee di base, che non sono state stravolte ma sostenuta con la giusta misura di note. E le collaborazioni di Steve Unruh, la cui musica si evolve in un folk prog interessante che in questo disco si cala alla perfezione, o quella di Mattias Olsson, percussionista svedese dal tocco vellutato, si completano con il basso di Hampus capace di intercalare passaggi veramente epici in tutto il disco. E la botta di cui parlavamo prima continua con la splendida apertura di Floating – Wasting Life dall’atmosfera oldfieldiana che diventa rock polifonico grazie alla voce ed alle tastiere di Elisa, oltre che all’intera composizione, che viaggia sul soffice tambureggiare di Olsson Earth’s Call (exosphere). E’ questa di sicuro la conferma che in questo disco sono le sonorità più ricercate a rendere ragione di una crescita musicale sempre più evidente di Elisa oltre alla conferma che la carriera solistica della stessa è ormai una realtà consolidata. Non fa niente poi se alla successiva Earthìs Call c’è gran parte del cerchio dei Samurai Of Prog ad essere presente con oltre ad Unruh al flauto anche Nina Uzelac al violincello, Jose Manuel Medina agli archi mentre della chitarra classica è Rafael Pacha ad interessarsene. E’ la sofficezza di We Are Magic a riportarci ad alcuni passaggi del precedente Devoiler le cui atmosfere sono qui trasferite probabilmente sulla scia di quanto ancora resta di quel bellissimo lavoro che l’ha proiettata in un’altra dimensione, un brano che si lascia dietro l’ascolto di una voce della quale ormai c’è poco da dire. Si continua con la splendida Haiku dove si narra di un pianeta arancione, un pezzo molto strumentale e dalle struggenti atmosfere vellutate per scelta dove, oltre ad Olsson troviamo l’accoppiata strumentale di David Keller al violoncello e Ignazio Serpenti alla chitarra classica ma dal tocco molto alla Page con il recitativo a cura di Yuko Tomiyama e Maitè Castrillo. La successiva Feeling Nothing/Into The Black Hole è musicalmente struggente nella prima sezione, una parte in cui si narra di uno angoscioso viaggio dalla terra verso l’ignoto perché qui, dove siamo ora, non c’è più speranza, una catastrofica previsione che però non è tale se ci si lascia trasportare dalla delicatezza della composizione. E non si può non riconoscere il tocco della Montaldo al pianoforte quando in un minuto e trentasette secondi racchiude le emozioni di un momento unico (forse), con quel Wesak  che è uno dei brani più ispirati di sicuro. Washing The Clouds, già presente nel precedente Devoiler assume qui una sonorità ancora più vellutate e …nulla più perché resta sempre un bel pezzo da ascoltare. Si chiude con Valse Des Sirènes (grand finale) che a differenza dell’apertura è la degna chiusura in pompa magna di un disco pieno di atmosfere, di viaggi mentali e purificatori, un disco che è scoperta di atmosfere capaci di modellarsi su quello che noi siamo oggi, adesso, un disco multisensoriale che Elisa ha voluto donarci con il coinvolgimento di grandi amici e musicisti.

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